24 aprile 2007

Editoriale, di Claudio Damiani



Se l’attuale dittatura economico-mediatica o dittatura della pubblicità, può, nei confronti di chi ha qualche attrezzatura culturale, essere tutto sommato limitatamente dannosa, dobbiamo riconoscere che nei confronti degli individui più fragili dal punto di vista culturale, che sono la grande maggioranza, essa ha degli effetti devastanti. Questa è la vera catastrofe, l’emergenza ecologica prima del nostro mondo. Che poi, la limitatezza del danno recato a quei pochi che possono spegnere la televisione, è in effetti molto relativa: perchè, se anche questi sono danneggiati solo nel fatto che sono emarginati, e non perseguitati, o sterminati, tuttavia la loro esclusione ha un ritorno devastante sulla società, che diventa come un corpo senza cervello. Se studiassimo la nostra società, vedremmo che il tratto comune a ogni sua singola parte, l’essenza della sua struttura, è la negazione dell’educazione.L’educazione è mostrare un’opera (di pensiero, di arte, di sentimento ecc), qualcosa che esiste, permettere a un educando di entrare in uno spazio di rigore, di arte, di realtà, di verità, permettergli di godere di quello spazio.
Il godimento di quello spazio, il godimento dell’opera (opera d’arte, di pensiero, di religione, di scienza) è il più alto che esista, la massima felicità è la partecipazione a quell’ordine, a quella comunità. Oggi si tende a dire che i cantautori sono i veri poeti, che i giornalisti sono i veri scrittori, che i pubblicitari sono i veri artisti. E’ la dittatura economico-mediatica che spinge a questo, utilizzando anche la devastata e devastante cultura ideologica precedente, che già aveva fatto deserto con storicismo, strutturalismo, fango e ceneri ideologiche sulla brace, sul fuoco vivo dell’opera. La dittatura pubblicitaria utilizza, assolda la vecchia cultura ideologica desertificante, vecchi tromboni che prima osannavano Mao, ora il Grande fratello: per questi personaggi è facile esaltare il trash, organizzare convegni su Liala, sostenere che Pirandello e Liala sono sullo stesso piano. Ci sono altri, e stanno più nella mia generazione, in quelli nati negli anni ‘50 e ‘60, e oltre, che non sono d’accordo, ma sono stati messi da parte. Si potrebbe dire: è inevitabile, non c’è niente da fare, la dittatura economico-ideologica è troppo potente, stiamocene appartati, coltiviamo i nostri studi nell’ombra ecc. Ma invece, se ragioniamo un attimo, c’è una forma di resistenza semplicissima, che potrebbe cominciare a minare l’intero sistema. Basterebbe cominciare a separare l’opera, la virtù, l’ordine, il bene, dal caos, dalla spazzatura, dall’ideologia, dalla violenza. Basterebbe cominciare, come diceva Confucio, a “raddrizzare i nomi”. Riportare i nomi, le parole, alla loro realtà. Cominciare a attaccare chi parla a vanvera, con le parole storte, rotte, chi dice fischi per fiaschi, chi scambia Liala per Pirandello. Questi, attaccati, non hanno niente a cui attaccarsi, non hanno altro che la loro ideologia, che è puro fantasma, non poggia su niente di vero, solo sulla propria soggettività distruttiva. Alle prime reagirebbero, utilizzerebbero tutto il loro potere, sarebbero aiutati dalle potenze economiche, ma la loro reazione si farebbe sempre più fioca, inevitabilmente, non consistendo su niente, essendo un gigante dai piedi d’argilla, dovranno capitolare. E la resistenza vincerebbe.